L'umore non era dei migliori quel giorno. Il sole bruciava le case e faceva fumare le strade d'asfalto nero, ma io ero costretto come ogni mattina a presentarmi ...Leggi tutto
Una racchetta per due
Non era la prima volta che accadeva. Il maestro Dragan aveva portato me e il mio avversario prediletto, da tutti chiamato “Il Rosso” per il colore dei suoi capelli, ad allenarci sul campo “veloce”, che aveva una superficie gommata al punto tale da far scivolare via in modo ancor più rapido la pallina. A queste sfide ero ormai abituato da tempo, ma non ero abituato all’idea di perderle. Il Rosso era uno di poche parole e veniva dal corso di quelli più grandi in cui il maestro cresceva giovani talenti per le gare agonistiche. La sfida contro il rosso era una prova, se fossi riuscito a batterlo anche solo per una volta in una partita, avrei potuto approdare nella squadra scelta che il maestro portava spesso e volentieri a fare tornei, anche di prestigio.
La scommessa dell’allenatore era semplice e diretta, e mi portava a considerare l’ipotesi che forse, prima o poi, il giorno in cui sarei riuscito a battere il Rosso sarebbe arrivato.
Il caldo sopra al campo 7, il nostro, il più veloce, iniziava a farsi sentire, per questo motivo e per altri che non starò certo qui a discutere, il maestro aveva deciso che nelle condizioni più estreme sia io che “Il rosso” avremmo potuto mostrare a tutti le nostre doti, ma soprattutto, rivolto a me, aveva fatto capire di aspettarsi grandi passi avanti da chi aveva ormai dato prova di aver raggiunto un livello sufficiente a entrare nella sua squadra “da competizione”.
Il Maestro Dragan era senza dubbio un ottimo tennista e un ottimo allenatore, eppure sapeva che io non ero favorevole a quel tipo di selezione ma che, per fare buon viso a cattivo gioco, ne accettavo i termini.
Quel giorno al campo 7 diedi tutto me stesso. Partì subito forte il Rosso, con vari ace e rovesci vincenti che mi fecero scivolare verso la sconfitta del primo set. Il secondo ripartii subito meglio, e fu così che, punto a punto, riuscii a potare a casa un set che tutto era fuorché scontato. Mi preparai quindi a calarmi nuovamente nella sfida contro il Rosso e iniziai a contendermi con lui un game dopo l’altro. La pallina correva da destra a sinistra del campo e noi dietro di lei, senza sosta e con i polmoni che si contraevano spasmodicamente per sostenere i nostri sforzi. La caviglia iniziava a farmi male, ma dovevo stringere i denti perché non avevo nessuna intenzione di mollare o fare un passo indietro. Avevo portato a casa un set che per quelle sfide era storico, e dall’altra parte del campo intuivo che il colpo era arrivato. Il Rosso iniziava a sembrare insolitamente nervoso, i suoi colpi non erano più fluidi come sempre, qualche errore di troppo da parte sua cominciò a favorirmi e fu così che iniziai a sbilanciare il set a mio favore.
Ripensavo a Matchpoint di Woody Allen, a quel momento in cui la pallina avrebbe potuto toccare il net e finire da una parte o dall’altra del campo, e ci pensavo perché ero in vantaggio all’ultimo game e potevo davvero arrivare a un risultato storico, insperato rispetto a tutte le previsioni; era vero, stavo migliorando, ma il maestro Dragan non si aspettava certo un passo in avanti così netto e deciso, quel giorno.
A un certo punto, un potente rovescio del Rosso mi fece trasalire: la pallina corse spedita verso l’angolo in basso a sinistra del mio quadrante. Era tremendamente angolata, rischiavo davvero di non arrivare a prenderla ma non esisteva che mollassi; avevo fatto un passo in più verso quella parte del campo e stavo già correndo per andare a prendere quel rovescio così tagliato e profondo. Mi allungai, trattenni il respiro e riuscii a rimandare di là la palla. Il Rosso si stava già facendo sotto rete, e con il dritto provo a fare il punto che avrebbe annullato il mio vantaggio, ma con le ultime energie avevo già recuperato la posizione e mi lanciai verso il centro del campo; senza pensarci due volte raggiunsi la pallina dopo il primo rimbalzo e lo feci, feci un lob di quelli senza pietà, di quelli che costringono il tuo avversario a guardare sconsolato la palla che lo scavalca e finisce per toccare il fondo del suo campo e fare punto. FARE PUNTO!
Era fatta, per la prima volta avevo battuto il rosso, stringendo i denti come non mai e credendo fino in fondo nella possibilità di portare a casa quella partita.
Dopo la stretta di mano, il Rosso, i suoi capelli e le sue lentiggini mi sembravano più umane, i complimenti sentiti per la mia prima vittoria contro di lui mi resero pieno di felicità e orgoglio, l’allenatore mantenne la sua promessa e fu così che iniziai a girare i tornei più importanti della categoria, diventando ben presto il punto di riferimento della squadra e un nome affermato all’interno del panorama tennistico (ma non pensate a Wimbledon o simili, non sono arrivato fin lì…).
Nessuna soddisfazione, nessuna partita a venire però fu più grande di quella che provai quel giorno sul campo 7. Ogni giorno esulto come se fosse la prima volta, ma quel giorno indimenticabile fu davvero la mia prima volta, e non sentii più battermi il cuore e scorrere la vita nelle vene come quel giorno.
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