L'umore non era dei migliori quel giorno. Il sole bruciava le case e faceva fumare le strade d'asfalto nero, ma io ero costretto come ogni mattina a presentarmi ...Leggi tutto
Emersione
«L’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni.
Come un attore che entra in scena senza aver mai provato.
Ma che valore può avere la vita se la prima volta è già la vita stessa?»
M. Kundera. Da L’insostenibile leggerezza dell’essere
Di libri di fiabe ne avevo moltitudini, da riempirci la libreria della mia camera sino al soffitto. Per arrivare all’ultimo scaffale tenevo una scala appoggiata alla parete; la prima volta che tentai di prendere un libro da quel ripiano, un Peter Pan in edizione illustrata, precipitai sul parquet e mi sbucciai il ginocchio sinistro, il sangue – quel fluido che ci mantiene in vita – sfociò e dilagò sul pavimento; per un attimo ebbi paura di morire, poi invece si cristallizzò e la mia avventura si limitò a qualche conversazione con i curiosi che si interessavano al mio ginocchio sinistro; il sangue è qualcosa che unisce tutti; siamo tutti – quasi tutti – composti da tale fluido. Comunque non mi avventurai sino a quell’ultimo scaffale per anni; nel frattempo ascoltavo da una vecchia cantastorie una vecchia leggenda, magari se l’era inventata lei stessa o forse le era stata raccontata, non lo so, so che amai La fata Morgana dalla prima volta, quando la nonna le diede vita.
Così, quando mamma e papà lavoravano, io uscivo di casa e raggiungevo il piccolo appartamento di mia nonna. Teneva sempre le finestre aperte e le tende piegate ai lati, diceva di farlo per non soffocare le nostre parole, per lasciarle libere. Ogni volta mi preparava un panino con la marmellata di fragole, poi si sedeva sulla poltrona e mentre io mangiavo lei mi raccontava quella leggenda.
«La fata Morgana. C’era una volta …» e le parole cominciavano a riempire il piccolo appartamento della nonna e a uscire fuori dalla finestra sino ad arrivare al mare dove la storia prendeva vita.
Mi narrava dei barbari che, durante un viaggio – uno di quelli lunghi e programmati osservando mappe e consultando maghi, una di quelle spedizioni con le carovane in fila indiana e le pause nei centri abitati dove saccheggiavano e violentavano gli abitanti – giunsero in Calabria.
Lì i barbari e il loro capo videro dalla costa la nostra Isola, così libera e maestosa nella sua intricata natura che il capo decise di volerla conquistare: la voleva possedere, dominare, abbracciare e violare.
Mentre pensava al come gli apparse una ragazza con i capelli neri che le arrivavano sino ai fianchi e la pelle pallida, evanescente: era nuda – con le forme libere avvolte dalla brezza di mare e dalla freschezza che emanava – era feroce nella sua delicata bellezza. Il re allungò il braccio destro e fece per afferrarla ma questa si sottrasse e rimase libera nell’aria, come polvere. Nelle vene non le scorreva sangue, ma aria, era reale e al contempo irreale, troppo debole per esistere. Il re la voleva. Le disse di voler conquistare quell’isola; se soltanto avesse avuto una nave sarebbe partito immediatamente alla conquista di quelle terre … Allora la ragazza, conoscendo gli uomini e la loro mente, fece apparire una nave nell’aria. Il re, vedendola, si gettò nel mare. Non pensò per quale strano motivo la nave avanzasse galleggiando nell’aria e non nell’acqua, nuotava goffamente avanzando un paio di bracciate, ma alla nave non si avvicinava e le forze lo abbandonavano. Era un miraggio; esattamente come la ragazza, la Fata Morgana. Il corpo del capo si stava lasciando andare e la mente pure, nel delirio della follia. Le onde lo risucchiarono.
Ogni volta era come la prima volta, ogni volta la ascoltavo e aspettavo il finale, come se non lo conoscessi. E intanto finivo il mio panino alla marmellata di fragole.
***
Un giorno d’estate, dopo aver riascoltato quella storia, chiesi alla nonna se la Fata Morgana esistesse veramente: era una domanda che mi tormentava da tanto tempo ma avevo paura … Come se la ragazza dai lunghi capelli neri, sentendomi, potesse morire per sempre, dissolvendosi in tutto lo spazio del Cosmo. Io invece volevo vederle fare quella magia, vedere la nave navigare nel cielo e avanzare verso di me per prendermi e non riportarmi più indietro, magari sull’Isola che non c’è.
Mia nonna esitò un attimo. Notai le rughe sulla sua fronte incurvarsi e poi distendersi, mi si avvicinò e in modo che soltanto io potessi sentirla disse: «la Fatata Morgana esiste davvero ma le piace rimanere nel mistero della leggenda che abbiamo inventato su di lei. Non sempre si presenta, ma ripete la magia quasi ogni mattino, al porto di Messina.»
Sbattei la porta e mi precipitai fuori dall’appartamento. Stavo correndo verso il porto quando ricordai che la fata Morgana le magie le compie solo al mattino. Rallentai e cambiai direzione. Arrivato a casa rubai l’antica clessidra di papà dal cassetto delle cianfrusaglie e la voltai sul mio comodino. Le dieci ore cominciarono a scendere risucchiate dalla gravità, lungo la strozzatura di vetro. Aspettai.
Il giorno seguente mi svegliai prestissimo. Si sentivano le onde sbattersi contro le scogliere e i gabbiani gridare alla vita. Guardai la clessidra: erano passate dieci ore, forse anche di più. Così uscii di nascosto, lasciando mamma e papa dormire. Io avevo il mio primo appuntamento.
Le strade erano deserte. Tutti erano nelle loro case, magari a dormire – alcuni sognando e altri parlando nel sonno – o magari a fare l’amore in segreto, oppure bevendo un caffè o una tisana, o prendendo una pastiglia per il mal di testa, qualcuno a lavorare sul proprio computer e qualcun altro a riflettere fissando il soffitto, e magari qualcuno avendo sete si alzava dal letto proprio in quell’istante e andava in cucina a bere per poi ripiombare nel sonno. Io invece ero in pigiama, a seguire un miraggio a piedi nudi; avevo una missione, per la prima volta.
Passai davanti al piccolo appartamento della nonna. Lei era affacciata alla finestra aperta, le tende piegate ai lati, come sempre; teneva in mano una tazza di caffè e mi sorrideva, complice di quella strana avventura. Il tempo scorreva e il Sole sorgeva, sarebbe stato maleducato non presentarsi all’appuntamento. Continuai a correre.
Arrivai al porto: il cielo si stava colorando, il primo bar apriva le serrande, i lampioni si spegnevano, i gabbiani aumentavano. Due ragazzi stavano correndo nell’ombra, i loro corpi avvolti: i rimasugli della notte.
Rallentai la corsa e mi avvicinai al bordo sul mare. Vidi che erano disposti dei secchi rossi contenenti pesci che guizzavano, nel tentativo di volare via. Ma i pesci non volano. I pescatori tendevano l’amo e aspettavano.
Per un attimo ebbi paura di credere all’impossibile, di essere folle – troppo piccolo e semplice per un mondo troppo grande e complicato, ma poi quei pensieri si scontrarono con le scogliere e si dispersero in frammenti irrilevanti nell’immensità del mare.
Mi sedetti vicino a un pescatore, nel secchio aveva sette pesci. Allungai le gambe e infilai i piedi nelle onde. Non vedevo né grandi navi né ragazze dai lunghi capelli neri, soltanto mare. Cercai di restare felice.
Mi voltai verso il pescatore e vidi il suo sguardo sereno, perso oltre l’orizzonte; quella fragile linea che divide la Terra dal Cielo. Era tranquillo, lui sì che sapeva aspettare i miracoli.
Cercai di calmarmi anch’io e osservai quel mare blu e quel cielo azzurro che si confondevano. Vidi qualcosa in lontananza che si stava muovendo. Si avvicinava verso il porto. Mi alzai e osservai meglio. Quella era una nave, una di quelle che solo i pirati hanno; avanzava nell’aria avvinandosi al porto, sorretta dal potere della Fata Morgana. Rimasi incantato a guardare quella nave volare, a vedere la magia esistere. Era vera, era dannatamente reale, continuavo a fissarla e quella non spariva. Chiudevo le palpebre e riaprivo gli occhi, ma quella continuava ad avanzare, senza mai approdare.
Mi ci persi con lo sguardo e con l’anima, guardavo quella nave volante e volevo raggiungerla, ma avevo paura: senza braccioli non sapevo nuotare e il capo dei barbari era affogato.
***
Suona la campanella, infilo velocemente quaderni, diario e astuccio nella cartella, la chiudo, saluto gli altri ed esco da scuola, come tutti i giorni. Guardo il cellulare e vedo un messaggio di mia madre: «Come è andata a scuola? Ricordati l’appuntamento: donazione sangue, ore 16.15, ci troviamo fuori dall’ospedale! A dopo, un bacio»
Passo da casa, prendo il panino preparato la mattina, con la marmellata di fragole, lo tengo in mano, e continuo a camminare, passo davanti al piccolo appartamento di mia nonna – le finestre chiuse, le tende tirate e un grande cartello: «Vendesi appartamento vista mare …».Vado al porto, correndo, come la prima volta fuggendo dalla realtà. La marmellata precipita sulla strada e il panino rimane vuoto.
I gabbiani gridano, le barche arrivano e partono e i pescatori tendono l’amo. Un traghetto sta partendo verso la Calabria, i famigliari e gli amici si salutano, il bar è affollato – la stagione estiva è iniziata.
Mi siedo sul bordo che dà sul mare e prendo dalla cartella il libro di Fisica, devo studiare alcune pagine per domani. Controllo il diario e vado a pagina 430. Devo fare in fretta. «18.15 fuori dall’ospedale» mi ripeto. Appuntamento: donazione sangue, per la prima volta. Ricordo quando chiamai e lascai il mio numero telefonico, quando feci la visita e mi dissero che avrei potuto aiutare davvero qualcuno, quando per la prima volta mi sentii necessario e legato ad altri in un equilibrio precario, ma possibile.
Paragrafo: «Che cos’è un miraggio». Nel caldo soffocante di maggio a cui cerco rimedio infilando i piedi nelle onde, leggo: «I miraggi possono formarsi anche sul mare, dove talvolta accade che gli strati d’aria più alti siano meno densi di quelli inferiori. […] L’osservatore che intercetta il raggio vede la nave capovolta, sospesa come se volasse. Questo fenomeno è detto fata morgana, dal nome del mitologico personaggio che illuse il capo dei barbari, il quale morì affogato cercando di avvicinarsi alla nave immaginaria creata dalla fata.»
Chiudo il libro e guardo lontano, oltre a quel mare esatto, semplice ed infinto. Oltre a quell’infinità rivedo l’origine; quando per la prima volta venni qui e quando poi ci tornai miriadi di volte. Vedevo quella grande nave galleggiare nel cielo ma non vedevo la fata e io non saltavo nel mare per paura di affogare. Aspettavo e vedevo la magia, ogni volta, ma nessuno me la spiegava e ancora mi appare troppo complicata per trovarci un perché – tanto che strappo quella pagina, pagina 430 e la getto nel mare. Rimane un istante in superficie poi, ingannata dalle stesse onde che ingannarono il capo dei barbari, affonda, lasciandosi risucchiare e quella manciata di parole troppo razionali e complesse, prive di senso ma esatte, muoiono.
A volte vorrei tornare nel passato, quando l’uomo ancora si meravigliava davanti alla bellezza del mondo: le stelle si azzardava soltanto sognarle, credeva di dipendere da forze superiori, era convinto dell’esistenza di un legame che unisse tutti, ognuno di noi, e che ogni vita aumentasse il “soffio vitale” dell’universo di cui siamo parte – viaggiamo nello spazio del Cosmo, come il sangue scorre nelle vene; noi siamo vita, siamo costituiti da moltitudini di particelle, esseri viventi, che formano il nostro essere (microcosmo), e noi moltitudini di persone (animali e piante) formiamo l’essere (macrocosmo) dell’Universo. Ma sto divagando, a volte i pensieri sbarcano e non approdano, forse affondano durante il viaggio o forse sono sempre stati soltanto miraggi.
***
Seguo il movimento delle onde e mi perdo nella loro profondità. Mi sciolgo nella loro acqua.
Vedo una ragazza avvicinarsi, mi si siede vicino. Ha capelli neri che le arrivano sino ai fianchi ed ha la pelle bianchissima, quasi malata, è nuda. Mi stringe la mano e l’avvolge nella sua, delicata, fredda, quasi inesistente; ora mi stringe con più furore, sento il sangue fluire dal mio braccio al suo, e lei diventare più forte, più calda, più reale. Io non sento più la pesantezza del corpo, mi sento leggero, libero, in equilibrio con lei. Lei si alza e si getta nelle onde del mare, io la seguo avvolto dal desiderio: scendiamo nel buio dove nessuno può vederci, sento l’aria mancarmi, lei mi si avvicina, sento la pressione delle sue labbra e la sua aria invadermi e tornarmi alla vita; sembriamo quei ragazzi che anni fa vidi nell’ombra, rimasugli di una notte. Risaliamo in superficie, torniamo al giorno e ci troviamo su una grande nave, come quella dei pirati, un’imbarcazione capace di galleggiare nell’aria. Una nuova forza ci riempie, ci invade, ci sbatte contro le onde del cielo, della vita. Mi sento vivo, come mai prima.
***
«Faccia qualcosa, La prego. Lo vede? È pallido. Lo aiuti! Lo risvegli, forza! »
«Signora, stia tranquilla è soltanto svenuto, succede, tra poco si riprenderà e si fidi, starà bene»
«Rivoglio mio figlio sveglio, subito! Le posso fare denuncia, se solo Lei non lo risveglia ora … » La donna si aggrappa al corpo dell’infermiere e piange come mai prima, poi si asciuga il viso con un fazzoletto e si ricompone.
Una luce mi acceca – chiudo gli occhi, provo a riaprirli; sono in una sala, vedo un uomo avvolto in un camice azzurro e mia madre con un fazzoletto spiaccicato in faccia. Ho qualcosa al braccio: una garza macchiata di sangue, il sangue donato alla ragazza dai lunghi capelli neri, quel sangue che la portò a essere reale, per un istante. La fata Morgana
Mia madre mi si getta addosso, avvolgendomi con le sue braccia e con quei chili di troppo sfuggiti a una dieta mai fatta. L’uomo con il camice azzurro sorride, apre la porta e si allontana.
«Mi dispiace, te l’avevo detto che non avresti dovuto … è troppo presto. Il sangue è megl …» le lacrime bagnano le ultime parole, incomprensibili, affogate. Continua a piangere e non sa che ho vissuto l’istante più intenso della mia vita, ho vissuto per un attimo la magia, l’avventura, la passione. Per un istante mi sono sentito vivo.
Mi alzo, sento di nuovo il peso del corpo. Usciamo dalla sala e sul corridoio ritroviamo l’uomo con il camice azzurro, che fissa il mare dalla finestra, quel mare contenente segreti inspiegabili.
«Quanto sangue mi avete preso?»
«Poco meno di mezzo litro, forse abbiamo esagerato per essere la prima volta. »
«Chiamatemi ancora, le prossime volte andrà meglio, si fidi.»
Mia madre non ha sentito, troppo concentrata a togliere dalla mia maglietta alcuni capelli neri, lunghissimi.
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Emersione dal mare, dalla quotidianità, dalla realtà, dalla razionalità, dal proprio corpo – dalla materialità. Una propria emersione dalla vita che crea il debole ma possibile legame con un immersione nella vita per un’altra esistenza. Cosa succede quando questo legame viene ad esistere? I due opposti resistono e vengono tenuti assieme da un’armonia perfetta, che sembra durare in eterno ma tutto si aggrega e si disgrega, tornando all’origine,
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