L’odore del pane

Ogni giornata era sempre la stessa, sempre la stessa trafila di impegni, telefonate, telefonate, impegni, scorribande da un ufficio all’altro, mail, notifiche, appuntamenti.
Milano mi guardava dall’alto dei suoi palazzi, alcuni storici, alcuni rifatti, alcuni costruiti ex novo sulle rovine di Navigli e ‘800.
Mi guardava severa forse? Non lo so, tendo sempre più a pensare che quella città sia, e non possa non essere, indifferente in buona parte ai suoi abitanti; eh si, lo penso e continuo a pensarlo, proprio perché le tante corse, le giornate piene e i ritmi frenetici della vita non mi aiutano più ad ascoltare la città, gli spazi, i tempi, assaporandone gli angoli e gli scorci nascosti.
Realizzare questo impoverimento della mia vita, della mia quotidianità, mi rendeva sempre più triste, solo, svuotato; arrivare a casa, nel mio monolocale fatto di sogni riciclati, di fotografie che mi rimandavano al passato, non mi regalava più lo stesso piacere. Avvertivo un monocolore grigio scendere sui miei ricordi e il mio tempo, quando cercai di concentrarmi su un nuovo modo di affrontare la vita e i miei giorni; dovevo smetterla di accavallare i pensieri, di lanciarmi in sperticate attraversate di quell’oceano di cemento che erano i miei turni di lavoro, e tornare a osservare e assaporare le piccole cose che mi aspettavano tra le pieghe di quei giorni così vuoti.
Fu proprio riflettendo su questo cambio di mentalità e visione che un giorno, mentre ero al panificio per prendermi qualcosa di caldo e appena sfornato, dimenticai per un attimo l’agenda dei miei pensieri e avvertii un profumo diverso, o meglio, un profumo.
La sintesi di tutto quell’arrovellarsi era forse sotto i miei occhi, o meglio il mio olfatto; dovevo rallentare, agganciarmi a qualcosa che mi aiutasse a dire “Dai, non va tutto così male, sono anche io che non mi sto aiutando…” e forse l’avevo trovato.
L’odore del pane caldo appena sfornato e mescolato a tutti quei colori che andavano dal giallo del grano al marroncino dei dolci di pastafrolla mi stava inebriando e riportando a nuova vita.
Una cosa piccola, un dettaglio apparentemente insignificante, stava rigenerando la mia serenità. Sembrava la prima volta, l’unica in cui avevo colto l’essenza di una cosa tanto piccola quanto gradevole, graziosa, apprezzabile, normale.
Una signora mi guardava mentre assorto contemplavo quei colori, mi diceva che era il mio turno ma io non riuscivo a distogliermi da quella sensazione. Avrei voluto restare lì dentro tutto il giorno, non andare a lavoro, non disperdere quelle sensazioni per nessun motivo.
Il mio sguardo si posava su trecce, filoni, panini al latte, pane arabo e tante altre tipologie di pane, tutti accomunati da una fragranza e una genuinità unici.
Forse sembravo proprio un po’ matto, lì fermo non come chi è indeciso, ma come chi sembra esser stato trasportato in un altro mondo. Così, intorno a me passavano dei minuti, nuovi clienti, nuovi sguardi perplessi; quella signora di prima era già uscita portando con sé dei filoncini alle olive, un’altra che non aveva saputo fare a meno di fissarmi perplessa aveva preso del pane alla zucca, mentre una coppia di studenti dei tranci di pizza che gli sarebbero stati di ottima compagnia nel cortile dell’Università.
Per quanto mi riguardava, in ufficio le battute si facevano sempre più frequenti, e l’ironia dei colleghi mi aiutava a tener vivo quel ricordo: giravo con la mia schiscetta, che spesso e volentieri era un semplice panino, uno tra i tanti tra cui potevo scegliere, e il suo profumo mi teneva compagnia in un momento di evasione che aveva il colore dei cereali.
Ecco, tutto questo avanzava nel corso delle giornate, tutti questi momenti in cui quell’odore del pane, quel dettaglio come amavo interpretarlo io, scandiva il ricordo e l’unicità dei piccoli momenti di tutti i giorni.
Sicuramente sarebbe poi venuto l’aroma del caffè, l’odore della carta per stampare, il tocco delicato dei raggi del sole sulle nuvole e le sfumature non proprio salutari del cielo sopra Milano; tutto ciò sarebbe poi arrivato a compimento, scandendo il tempo e le sensazioni in quei giorni così uguali gli uni con gli altri, distinguendo il bello dal brutto, il nuovo dall’indefinito.

Ripetei l’esercizio più e più volte, spontaneo come un segugio che annusa la traccia più convincente, recandomi nel panificio di prima mattina; era sempre e comunque come la prima volta che avvertivo il fiorire della primavera o ascoltavo il rumore del mare, un rinnovato momento di speranza, davvero un modo nuovo e convincente di iniziare al meglio una nuova giornata di lavoro.
Che fine facevano le mie giornate in quel pensiero fatto di acqua e farina? Ne uscivano ringiovanite e rinvigorite, mi davano nuova forza ed energia, mi rilanciavano con nuovo sangue e vigore nelle mie giornate. Così, ogni volta che entravo e uscivo da quel panificio era sempre la mia prima volta, il primo momento di gioia del giorno. A nulla servivano più gli appuntamenti, i ritardi, gli stress legati al lavoro, alle incomprensioni, agli obiettivi lavorativi spesso forzati: ero finalmente tornato a vivere, ad ascoltare il profumo della vita, delle piccole cose belle, di ciò che mi rendeva felice, e lasciavo che questo piccolo rituale del mattino si perpetrasse durante tutto il giorno, nel mio sguardo e nel mio sorriso, per contagiare con questa mia prima volta gli umori e gli sguardi di quanti mi vedevano passare sereno, felice.

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