LA PRIMA VOLTA CHE MI SONO INNAMORATA

La prima volta che mi sono innamorata avevo quindici anni. Accadde un giorno di primavera, tra peschi odorosi e prati in fiore. Quel giorno non sentii nulla. Non un timido cinguettìo. Non un garrulo stridìo. Non un segno terreno. Non una mano tesa... soltanto un respiro in lontananza: quello di Cesare. Cesare mi colpì subito, non appena lo vidi appartato in un angolo semibuio della biblioteca. Se ne stava col capo chino, a sfogliare pigramente le pagine di un libro di anatomia. Ogni tanto si soffermava su qualche riga, sospirava, si guardava intorno, e ricominciava. Una sequenza delirante che ripeteva meccanicamente, come un robot schiacciato dalla noia, e dal caos.
Fu per via di ciò che c'era sul suo tavolino che lo osservai in silenzio, per almeno mezz'ora. Per via dei due righelli colorati, separati uno dall'altro da una matita verde; del pacchetto di Malboro Rosse; della pila di tomi universitari avvolti da una decina di fogli attorcigliati; delle monete sparse ovunque. Fu per via della caricatura di una donna, impressa su un pezzo di carta poco distante da lui, che pensai che doveva avere abbastanza immaginazione per soffrire; del suo aspetto, pallido e gracile, che rifletteva un male di vivere misto a rassegnazione; delle sue labbra, turgide e screpolate, che si aprivano solo per sbadigliare; delle maniche assurdamente lunghe della camicia, che celavano le sue dita sottili; della cicatrice sul collo, grande poco più di una spanna e profonda abbastanza da farlo sembrare incosciente; del suo sguardo, incurante e disilluso, che, senza preavviso, si posò sul mio: mi sentii nuda, come se mi stesse rosicchiando l'anima. Scavava dentro ed ispezionava. E, in un attimo, spazzò via il vuoto dello spazio e gli inganni del tempo, le insicurezze e la tristezza selvaggia. Cancellò le trappole. Sconfisse la morte. Lo stesso attimo in cui riuscii a fissarlo e a renderlo vulnerabile. Guardavo lui che guardava me, ubriaca di piacere e turbamento.
Poi arrivarono l’imbarazzo e il distributore di bevande, verso cui mi girai facendo finta di niente. Afferrai i pochi centesimi che avevo racimolato e li gettai dentro bruscamente, aspettando con impazienza il tè alla pesca. Quando venne giù era più verde e tiepido che mai, come uranio, eppure lo ingoiai d’un fiato. Il retrogusto si fece sempre più amaro e forte, refrattario perfino all’unica bustina di zucchero che custodivo gelosamente nella giacca. Allora optai per il palliativo per eccellenza, altamente rilassante, extra socializzante, super corrosivo, indiscutibilmente chic: la sigaretta. Era la tredicesima Camel della giornata. Adoravo le Camel. Ne sfilai una dal pacchetto e sul gradino del palazzo antistante la biblioteca intrattenni con lei un’adorabile conversazione.
Fu sollevante, almeno quanto svuotare la vescica gonfia dopo ore di insopportabile attesa.
“Hai da accendere?”, chiese una voce rauca e arrendevole.
Era Dio travestito da Cesare.
“Certo!”, risposi, fingendo di essere un cigno aggraziato e affascinante.
Con fare di gatta, gli porsi l’accendino e mi sforzai di guardarlo negli occhi, abbassando istintivamente i miei a terra.
Poi presi la decisione più temeraria della mia vita: parlargli.
“Chissà perché, ma ho come la sensazione di averti già visto”, dissi, accennando un sorriso.
“Impossibile”.
Tacqui dal dolore.
Non contento, mi tramortì con uno sbuffo spietato in faccia. Perciò gli voltai le spalle e consumammo il resto della sigaretta con calma ultraterrena, indifferenti l’uno all’altro.
Solo quando fu il momento di alzarci, mi feci coraggio e gli chiesi l'ora.
“Non ce l'ho!”.
Andò peggio di qualsiasi pessimistica previsione.
“Fa niente!”, esclamai. C’era molto disagio di cui arrossire. A quel punto pestai ciò che rimaneva della sigaretta e lo salutai.
Erano mesi che non mettevo piede in biblioteca, e di certo non andavo matta all’idea di tornarci. Le persone erano esageratamente serie, le pareti troppo austere e anacronistiche, e gli scaffali poi... pieni zeppi di libri insignificanti. Tutto mi rammentava gli anni alienati e psicotici di studio imposto controvoglia, che mi isolarono completamente dal fuori.
Il giorno dopo, però, feci quello che avrebbe fatto qualsiasi donna innamorata: mi avvicinai al tavolino di Cesare e con le corde vocali strizzate farfugliai: “Posso sedermi qui?”
Da allora la biblioteca divenne la mia seconda casa, e ogni scusa era buona per incontrarlo. Con lui intrapresi un viaggio tumultuoso di cui non conoscevo la destinazione. Cercavo la luce, mi regalava il sole, come in un sogno da cui non riuscivo a destarmi. Ma Cesare era troppo, troppo per me, paralizzata e goffa com'ero. Era bello, di una bellezza ingombrante. Romantico ma non sentimentale, semplice ma non banale. Non lo è mai stato. Di sensibilità, però, ne aveva da vendere. In ogni suo gesto c'erano gentilezza e fascino. Nascondeva negli occhi la profondità degli abissi e l'infinito oltre l'orizzonte. Comprendeva gli altri in modo autentico ed era sempre presente. Poi, d'un tratto, non lo è più stato. Un ragazzo la raccolse sul ciglio di una strada, un mattino di dicembre. Il suo migliore amico gli stava accanto, completamente sfigurato. Tre isolati più in là io stavo ancora dormendo.
Quel mattino persi tutto ciò che avevo di più caro.
Il giorno del funerale avrei voluto salutarlo nel migliore dei modi, ma non ne fui capace, per colpa di quel blocco emotivo che mi trascino dietro da anni, come marchio delle mie insicurezze. Mi nascosi piangendo in un angolo semibuio della chiesa. Giravo i pollici torpidamente, incrociando le braccia tra i tanti interrogativi a cui non sapevo dare risposta. Provavo rabbia e tristezza e disperazione, come se qualcuno mi avesse sbriciolato il cuore a colpi d'accetta, mentre il resto del corpo fosse rimasto ad agonizzar vuoto. Se mai mi avessero mozzato un arto, non sarebbe uscita una goccia di sangue. Il che mi diede la sensazione che non sarei mai più tornata la stessa. Io che riuscivo a minimizzare sempre ogni cosa, ero in quel momento la persona più afflitta della terra.
Ne sono successe di cose, Cesare
Non so come sarebbe stato senza l'incidente.
Non lo so.
Avresti meritato più tempo.
E io sarei stata al completo, con te, in quella biblioteca.

Finalista
LA PRIMA VOLTA CHE MI SONO INNAMORATA
Marla
31 anni
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L'umore non era dei migliori quel giorno. Il sole bruciava le case e faceva fumare le strade d'asfalto nero, ma io ero costretto come ogni mattina a presentarmi ...Leggi tutto

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Ignazio Sardo, 27 anni

#LaPrimaVolta #figli #Amore #speranza #lavoro

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Due prime volte è meglio di una!
Due prime volte è meglio di una!
Sabry82, 33 anni

Io ero determinata a donare e mio padre, quasi a protezione, mi ha accompagnata...quella mattina di 14 anni fa doppia sorpresa: anche lui ha deciso di provarci! Qui siamo al nostro primo traguardo, ovviamente sempre insieme! L'emozione è stata tanta, orgogliosi l'uno dell'altro per aver cominciato e continuato questo percorso.

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Sarah Maestri per Avis e #LaPrimaVolta
Sarah Maestri per Avis e #LaPrimaVolta
Sarah Maestri - Testimonial

La prima volta che ho ricevuto una trasfusione di sangue? Avevo due anni e mezzo. Ho dei bellissimi ricordi di quei momenti che hanno contrassegnato la mia infanzia, tra camici bianchi, esami e terapie per combattere una malattia emolitica.

#LaPrimaVolta #donazione #AVIS #sangue #AvisNazionale #SarahMaestri

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