L'umore non era dei migliori quel giorno. Il sole bruciava le case e faceva fumare le strade d'asfalto nero, ma io ero costretto come ogni mattina a presentarmi ...Leggi tutto
La prima volta che ho aperto gli occhi
Non ho mai avuto paura del buio perché ho sempre trovato la luce, e ho amato ogni film di terrore perché mi incentivava a ricordare quanto fosse distante dalla realtà. Come a chiedere una conferma continua. Non ho mai avuto paura della solitudine, perché ho sempre trovato una mano nel vuoto, dalla quale trarre appiglio. Come a saltare sopra un tappeto elastico.
E non ho mai avuto paura della fine, perché ad ogni caduta mi sono sempre rialzata più forte. Come a collezionare tagli da esposizione per rendermi migliore, e compiacermi.
Ma arriva il giorno in cui il cielo, e la terra paiono restringersi intorno a te, e lasciarti solo l'aria sufficiente a farti boccheggiare. E ti senti soffocare, comprimere da una vita che senti non appartenerti a pieno.
Ti guardi in torno e non vedi niente di familiare a cui fare riferimento, solo tempo perso, e ricordi impertinenti. Ti trovi solo col silenzio dei giorni che passano senza la tua presenza mentale, e il ticchettio di un orologio che non ti aspetta e suona fino a torturare i timpani.
Arriva, ad ogni modo, la realtà a far capolino, l'orologio a rompersi, il silenzio a cessare. Arrivi a relazionarti in un mondo che, in ogni aspetto, ti sembrerà ingiusto.
Un mondo capace, in un batter di ciglia, a farti comprendere che gli horror, erano solo la preparazione al cammino reale. Che la solitudine, non è che un libro a noi dedicato, fuori dai vizi delle videocamere sociali. E che la fine, non è che un inizio partito dal fondo, che ti ritrovi a toccare.
Un giorno ci viene sbattuto davanti agli occhi la dura realtà dei fatti, e ci ritroviamo a correre così forte da ansimare, perché non riusciamo a stare al passo degli eventi, non sappiamo dove andare.
Così spesso ci ritroviamo a fare le comparse di una vita da protagonisti. Vagando per luoghi mai visti, assaporando sapori mai sentiti prima, odori e sensazioni mia provate. E il tutto con occhi inesperti, persi in luci abbaglianti. Fino a diventare adulti, fino a sentirci bruciare le palpebre.
La mia prima volta, è stata la mia prima morte.
Perché quando perdi una persona a te cara, cedi un frammento di te al cielo, e muori un po' anche te. Se alzi lo sguardo puoi perfino veder nascere una nuova stella tra lo smaltato blu dell'immensità che ci sovrasta. Una di quelle stelle che brilla di luce propria, anche senza la luna a illuminarla.
Così è morto mio nonno, su un letto e tra lenzuola bianche d'ospedale, in un sonno profondo dal quale non si è più svegliato, e solo quel giorno ho consacrato quella pelle ruvida, pallida, e lattiginosa. Solo quel giorno, in quella bara di legno mogano, tra fiori da colori di una vitalità che a lui era stata sottratta, l'ho visto davvero invecchiare, invecchiato d'un colpo. E non avrei mai voluto vederlo così.
E' che lui ha chiuso gli occhi, e ha aperto i miei.
Continuo a rivisitare il suo ricordo per tenerlo fresco, come un tempo era lui e l'aria che ci tirava attorno. Continuo a tenerlo sotto pelle, con i suoi occhi vividi nelle mie pupille, che diventano languide al suo nome.
A volte penso che non sono riuscita ad assaporare la sua vera essenza, sostituta ora dalla sua assenza, e vorrei rivestire la mia vita di più strati di lui, di quanti mi sono stati concessi. Perché ho compreso, e sì a mie spese, che ci sono forze superiori a noi, che non possiamo in alcun modo alterare. E che se continuiamo a tener gli occhi chiusi, per paura delle altezze che potremmo raggiungere, allora non potremmo mai scontrarci con la vita che vogliamo, e saremmo solo schiavi di impostate routine.
Omologati in etichette fisse che la società ci impone segretamente.
Così, avrei voluto aprirmi prima, e per la prima volta vederlo ricolmo della vita che gli è stata sottratta. Vederlo con i miei nuovi occhi, nella sua splendida carnagione abbronzata dal sole dell'orto.
Vederlo saltare a piedi scalzi sulle pietre calde del viale di casa, per sfidarmi a chi resiste di più. Vederlo cedermi il peperoncino a tavola, per farmi un dispetto. Vederlo vivere, di nuovo, un giorno in più. Resistere.
Però, realizzo che ogni prima volta, arriva quando è la sua volta.
E allora, mi chiedo se i miei occhi lo avrebbero guardato allo stesso modo, se avessero saputo. E forse non avrei voluto vederlo diversamente.
Non avrei voluto veder di lui solo la sua malattia, che in un viaggio progressivo ha finito per portarmelo via. Non avrei voluto veder di lui solo il suo veloce scomparire, fino a diventare un alone distinto su una maglietta bianca.
Non avrei voluto scontrarmi con la vita così giovane, a soli quattordici anni. Se fosse ancora al mio fianco, non avrei mai ceduto l'ingenuità della mia età così presto.
Avrei continuato a vederlo nelle sue vesti sporche di terra, con le mani tagliate dai tralci dei rami, e i talloni neri di polvere. Avrei continuato a sperare in un giorno migliore, in cui il telefono non fosse squillato per comunicare un cedimento improvviso, che tanto con la leucemia non se ne esce vivi. Avrei continuato.
Per questo avrei scelto lo stesso di farmi vivere da lui, perché non potevo smettere di crederci, e di perdere la speranza prima del dovuto. Non potevo non sorridere per infonderli una minima speranza di riuscita, perché ciò avrebbe significato arrendersi, e morire con lui, definitivamente.
Avrei scelto lo stesso di iniziare a vivere consapevole dei miei passi, solo grazie a suoi. Dopo i suoi.
Ma avrei fatto una scelta, e la sua morte non lo fu.
Un abbraccio, nipote.
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