L'umore non era dei migliori quel giorno. Il sole bruciava le case e faceva fumare le strade d'asfalto nero, ma io ero costretto come ogni mattina a presentarmi ...Leggi tutto
La partita di pallavolo
Con un’altra schiacciata sul bordo linea la squadra di casa aveva segnato il tredicesimo punto, avvicinandosi a vincere il set e la partita. Mentre il pallone rotolava verso il fondo fermandosi contro il muro della piccola palestra, le giocatrici del Montebruno, scoraggiate, si erano tutte girate a guardare il difensore, che aveva cercato inutilmente di rincorrere la schiacciata e ora sedeva a terra.
Eppure, dopo un primo tempo equilibrato, perso per un solo paio di punti, le ragazze erano riuscite ad aggiudicarsi il secondo set, costruendo una serie vincente di azioni.
“Brave, un ottimo gioco di squadra” le aveva incoraggiate l’allenatore “Continuate così e vinciamo anche il terzo set”. Prima dell’inizio dell’ultimo tempo, come prevedeva il loro rituale, si erano disposte tutte in cerchio allungando le braccia in avanti con le mani unite ed esplodendo in un olè che esprimeva tutta l’allegria e l’entusiasmo dei loro quattordici anni. Ancora qualche minuto per scherzare tra compagne e scambiarsi qualche sguardo malizioso con i giovanissimi tifosi che le avevano seguite anche in trasferta, in sella ai loro motorini; poi erano rientrate in campo. Il set decisivo sarebbe stato sicuramente loro.
E poi, invece, in pochi minuti la partita era completamente cambiata. Un paio di schiacciate ben piazzate dalle avversarie in quel punto immaginario perfettamente equidistante tra i due difensori, uno scambio reciproco di sguardi un po’colpevoli e un po’ accusatori tra le compagne incaricate alla protezione della seconda linea. Un pallonetto proprio dietro il muro, facilmente evitabile, se la centrale si fosse allungata un po’.Una battuta col salto finita in rete: un azzardo, da non tentare in un momento cruciale della partita. In pochi punti la fiducia reciproca era venuta meno, il gioco di squadra aveva iniziato a traballare, la paura di non farcela sembrava aver improvvisamente contagiato tutte le giocatrici.
Poi quella schiacciata sul bordo in fondo al campo, il tabellone che segna 9-13. Il difensore che fa una smorfia di dolore per una storta, l’allenatore chiama il Time Break.
Eleonora adorava giocare a pallavolo. Aveva iniziato a giocare da pochi mesi ma da subito gli allenamenti settimanali erano diventati per lei gli appuntamenti più attesi della settimana, vissuti con grande entusiasmo, ricordati quasi con nostalgia fino all’allenamento successivo.
Le piaceva ritrovare ogni volta quell’odore di gomma del pavimento della vecchia palestra; riconoscere al tatto il suo pallone fortunato tra le decine messe a disposizione nel cestone della palestra- era quello più ruvido da una parte, leggermente spellato da un angolo.
La inorgogliva indossare la divisa, troppo grande per il suo fisico magro, si divertiva a riconoscere sulla schiena i contorni del numero 11. Le piaceva perfino sentire il fastidio dell’elastico delle ginocchiere: una sensazione che durante l’allenamento scompariva, lasciando però in ricordo un bel segno rosso sul polpaccio.
Si allenava con costanza e concentrazione, provando un’intima felicità al raggiungimento di ogni suo piccolo personale traguardo: andare sempre più giù negli allungamenti fino a toccare il pavimento con le dita, poi con tutto il palmo; elevarsi sopra la rete di mezza mano, anzi quasi della mano intera; aumentare il numero delle addominali. Il giorno dopo l’allenamento, le piaceva anche ritrovare quel leggero dolore dovuto all’acido lattico, che le ricordava la sua passione e la spingeva a fare ancora meglio la volta successiva.
Eleonora aveva iniziato a giocare a pallavolo per seguire Cristina, la sua migliore amica, che già giocava nel Montebruno da due anni. Agli allenamenti erano inseparabili: sempre in coppia in tutti gli esercizi, sempre in squadra insieme nelle partitelle di allenamento. Cristina e Eleonora abitavano anche vicine, e nelle ultime settimane, con l’avanzare della bella stagione, avevano iniziato a trovarsi anche la sera, dopo cena, allenandosi in infinite serie di palleggi e commentando con grande serietà gli schemi di gioco provati in palestra nel pomeriggio. Ancora non giocavano in ruoli fissi, ma ruotavano nelle posizioni per imparare tutti i fondamentali, dalla battuta alla ricezione al palleggio alla schiacciata. A dire il vero Cristina era più brava di Eleonora e non solo perché si era avvicinata a questo sport prima dell’amica. Anche il fisico faceva la differenza e Cristina, alta e slanciata, poteva contare per così dire su delle “basi” più favorevoli di Eleonora, che era esile e sembrava più piccola delle ragazze della sua età. Per Eleonora, il fatto che Cristina avesse scelto lei come compagna di gioco, e che confermasse senza alcuna esitazione la sua preferenza ad ogni allenamento, era una prova preziosissima di lealtà e amicizia incondizionata. A pensarci ora, il primo esperimento di un rapporto preferenziale esclusivo, che aveva avuto un ruolo non da poco nella costruzione delle sicurezze di una pre-adolescente.
Ma la cosa che piaceva di più a Eleonora era il gioco di squadra, il sentirsi parte di un gruppo, dove si vince tutti insieme o si perde tutti insieme. Per Eleonora lo spirito di squadra era giocare affinché ogni componente possa tirar fuori il meglio di sé. Per questo il ruolo che le piaceva di più era il palleggiatore, che può offrire alle compagne la possibilità di fare punto. Eleonora sperava un giorno di diventare la palleggiatrice titolare del Montebruno; per ora non mancava a una partita, dando tutta se stessa nei ritagli di partita in cui l’allenatore la metteva in campo.
“Eleonora, scaldati, tocca a te”. Eleonora aveva sentito un’emozione che le era divampata sul viso mentre le compagne erano uscite dal campo per il Time Break. Era già entrata qualche minuto nel secondo tempo, quando il set si era già avviato verso una tranquilla vittoria, ma questa seconda chiamata non se l’aspettava. Era la prima volta che l’allenatore la metteva in campo nel momento cruciale di una partita e lei non era sicura di meritare questa fiducia.
Eleonora aveva iniziato a riscaldarsi mentre l’allenatore aveva incoraggiato le giocatrici, aveva dato gli ultimi consigli, allungato le borracce per farle bere. Dopo qualche minuto aveva fatto un cenno all’arbitro e aveva chiamato il cambio: fuori il 4, la giocatrice con la caviglia dolorante, dentro, in posizione di difesa, il numero 11. Alla destra di Eleonora c’era Cristina, che le aveva rivolto un grande sorriso di incoraggiamento.
La prima battuta dell’avversaria era arrivata proprio ad Eleonora ed era forte, fortissima, o almeno così le sembra nel ricordo. Eleonora l’aveva presa con precisione, l’aveva passata all’alzatrice, che aveva servito una compagna. La compagna aveva messo il pallone a terra.
La squadra si era rianimata. Il Montebruno aveva rimontato, raggiunto e poi superato le avversarie.
Sul 13-14 Eleonora è in posizione 3, la posizione della palleggiatrice. Quasi non se ne rende conto finché la compagna non si porta in battuta: il punto decisivo della partita potrebbe costruirlo proprio lei. Per un momento la assale la paura, guarda l’allenatore aspettandosi, forse sperando, di essere sostituita, ma l’allenatore non fa alcun cenno.
La compagna batte la palla, una battuta bella forte che le avversarie ricevono con difficoltà rilanciando direttamente sul campo avversario. La compagna in difesa la passa ad Eleonora, che alza in posizione 4 a Cristina. E’ un’alzata precisa, Cristina salta, la schiaccia. La palla cade dentro il campo delle avversarie. L’arbitro fischia e segna la fine della partita. Il Montebruno ha vinto, è un’esplosione di gioia.
Il resto Eleonora non se lo ricorda proprio bene. Gli abbracci delle compagne, il giro emozionato del campo per il saluto alle avversarie, gli scherzi in spogliatoio, la pizza alla sera. Probabilmente è andata così, più o meno, ma in fondo non ha una grande importanza. Quello che Eleonora ricorda con precisione, ancora dopo tanto tempo, è che per la prima volta ha provato la gioia di dare il meglio di sé, la felicità di ricambiare la fiducia, la soddisfazione di contribuire a un’impresa insignificante per i più, ma per lei preziosa.
Tutto questo ricorda ancora, ora che ha davanti a sé suo figlio di 8 che la implora: “Dai mamma iscrivimi a calcio”. “Ma Filippo, due allenamenti a settimana sono troppo impegnativi, quest’anno fai la terza, dovrai cominciare a studiare. Io e papà siamo in ufficio fino a tardi, non possiamo dare questo impegno alla nonna. Sono tutti più grandi di te, e poi come facciamo tutti i sabati con le partite …”.
E’ la prima volta che vede suo figlio così insistente. Ha giocato a calcio tutta l’estate sul campetto con gli amici della via. Infinite partite serali finché il buio non rendeva proprio più possibile riconoscere la palla. Ogni sera era stata un’impresa recuperarlo, inzuppato di sudore, sporco d’erba, rosso in viso ma con la luce negli occhi.
“ E va bene”, dice Eleonora “ Domani andiamo a parlare con l’allenatore. Ma la prima volta resto a guardarti”.
Eleonora
39 anni
Le prime volte più importanti sono esperienze che contribuiscono a costruire la tua storia, la tua personalità, la tua sensibilità. Le prime volte più importanti tornano alla memoria anche dopo tanto tempo, quando meno te lo aspetti, e con i loro insegnamenti sanno ancora guidare le tue piccole e grandi decisioni.
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Io ero determinata a donare e mio padre, quasi a protezione, mi ha accompagnata...quella mattina di 14 anni fa doppia sorpresa: anche lui ha deciso di provarci! Qui siamo al nostro primo traguardo, ovviamente sempre insieme! L'emozione è stata tanta, orgogliosi l'uno dell'altro per aver cominciato e continuato questo percorso.
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La prima volta che ho ricevuto una trasfusione di sangue? Avevo due anni e mezzo. Ho dei bellissimi ricordi di quei momenti che hanno contrassegnato la mia infanzia, tra camici bianchi, esami e terapie per combattere una malattia emolitica.
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